giovedì 4 marzo 2010

Qualsiasi altra cosa il viaggio ti porti

Viaggiando per le montagne di mezzo mondo ho sempre provato un po' di nostalgia di casa, a volte molta come mi è successo in questa spedizione. Nostalgia soprattutto delle persone che amo e che costituiscono senza ombra di dubbio la cosa più preziosa che possiedo.
E sempre la nostalgia era più grande quanto più alto era il pericolo e la difficoltà della montagna o della parete che affrontavo.
So bene che questa sensazione è legata anche allo stato di tensione che porta con se una scalata rischiosa e lontano da casa ma neanche gli anni e l'esperienza sono riusciti a lenire un po' questa sensazione sgradevole.
In alcune spedizioni ho visto dei compagni tornare a casa in anticipo, un po' per colpa dell'ambiente severo a cui qualcuno non era preparato ma anche e soprattutto per il fatto di non aver vicino i propri affetti.
E' curioso, a volte ci consideriamo dei duri senza bisogno di niente e di nessuno se non della nostra libertà, ma spesso appena partiti già non vediamo l'ora di tornare, magari con la cima o la parete già in tasca.
In realtà dopo i primi giorni di sconquasso emotivo ci si abitua presto ai nuovi ritmi di vita che mirano tutti ad un unico obbiettivo: salire, salire e salire ancora.
Per noi alpinisti a questo infine si riduce la nostra attività, in questo riponiamo le nostre speranze, i sogni e le ambizioni. Il modo in cui saliamo e lo sguardo sul mondo che conserviamo distingue poi il nostro valore anche come essere umani.
Da tempo ho smesso di mitizzare la figura dell' alpinista che in realtà non è che un uomo come tutti gli altri e che quindi riflette pregi e difetti della società nel quale vive.
E' fuori dubbio comunque che in Patagonia ho spesso incontrato scalatori che poi sono diventati anche dei veri amici. Ho la netta sensazione che in alcune zone del mondo come in Himalaya ad esempio, questo non sia possibile. Forse su queste montagne a sud del mondo lo sguardo degli alpinisti è rimasto più umano ed equilibrato che altrove e probabilmente questo è anche merito del calore e dell'amicizia che il carattere degli Argentini porta con se e che finisce col “contaminare” anche chi viene da fuori.
In questo viaggio sono partito da solo e con il mio amico Argentino ora cerco di scalare una bellissima torre di granito nel gruppo del Cerro Torre.
La montagna è davvero spettacolare, è stata salita una volta sola e la voglia di aprirvi una via nuova legando così i nostri nomi a queste pareti costituiscono una motivazione davvero forte e che ci fa sopportare grandi fatiche.
I lunghi periodi di inattività che il clima Patagonico costringe rimandano però spesso il pensiero verso casa. Cerco di farmi forza pensando a quanti lunghi mesi se non anni di lontananza hanno dovuto subire le generazioni di esploratori, alpinisti e marinai precedenti alla nostra. Penso a chi è stato lontano da casa per la guerra, per la prigionia o perchè emigrato in qualche paese lontano a cercar lavoro.
Penso che non mi devo lamentare, sono qui con la fortuna rara di inseguire un mio sogno volontariamente e non a tutti questo è concesso.
Ripenso ad uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi, a quel Renato Casarotto che compiva imprese estreme in luoghi lontani e spesso senza compagni di cordata. Durante molte spedizioni però al campo base sotto la montagna, insieme a lui la moglie Goretta. E' incredibile quanto possa rendere forti a volte l'amore di un altro essere umano.
Cerchiamo di sfruttare questi primi giorni di tempo decente trasportando fin sotto la parete tutto l'equipaggiamento alpinistico, viveri, fornelli, gas, tenda e tutto quello che ci servirà per i giorni della scalata.
A momenti di bufera selvaggia si alternano bagliori di cielo azzurro e montagne meravigliose.
Sul ghiacciaio dove poniamo il campo base non una traccia di vita animale o vegetale, solo ghiaccio, sassi e valanghe. Non più quell'odore dei faggi australi e del verde della Piedra del Fraile, quel verde che ti entra nei polmoni.
Con quasi tutto il materiale sotto la montagna possiamo tornare nel villaggio del Chalten a riposarci.
Da qui aspetteremo se ci sarà, una finestra di tempo accettabile di almeno un giorno o due per provare ad arrampicarci sulla torre.
Chissà se questa sarà la la montagna dei miei sogni, spesso ci penso. Una torre di granito con la vetta tempestata di neve, una via estetica e logica che sale verso la vetta e poi passaggi difficili su fessure di granito e canali ghiacciati ed intorno il bianco dei ghiacciai ed un cielo blu intenso.
I momenti di attesa nel sacco a pelo, le mani spellate per il lavoro sulla roccia, la gioia della vetta e la lotta in mezzo alla tormenta. Quanti ingredienti servono per comporre una salita perfetta e per far si che un sogno diventi realtà!?
Passiamo alcuni giorni nel villaggio ad aspettare.
Tra i locali del paese incontro gli alpinisti Bellunesi che son qui per scalare il Torre, tra loro anche Manrico Dell'Agnola che mi dice di esser ospite nella casa che Egidio Gusmeroli possiede in paese.
Conobbi Egidio dieci anni fa qui in Patagonia. Stufo della sua attività imprenditoriale si era trasferito qui mollando tutta la sua vita precedente per cercare qualcosa che lui stesso non sapeva ben definire.
Dopo qualche anno ricevetti sue notizie da un comune amico venuto quaggiù per attraversare lo Hielo Continental con gli sci. Sembrava che l'irrequietezza di Egidio si fosse un po' placata e che avesse trovato quel che cercava.
Ora nella sua casetta qui al Chalten vive la figlia Italiana che si è sposata con un gaucho Argentino, Egidio ci ha lasciati da pochi mesi.
Storie incredibili si incrociano in Patagonia, sembra quasi che nel villaggio del Chalten i destini di molti uomini vengano condotti da qualche forza oscura e che qui restino imprigionati per sempre.
Le bufere sulla montagna si susseguono da giorni e le previsioni non preannunciano nessun miglioramento. Molti climber hanno finito il loro tempo a disposizione e devono rientrare.
Chi aveva il materiale sotto le pareti deve risalire appositamente per recuperarlo. Questo è l'alpinismo in Patagonia, per ora tocca questo lavoro allo svizzero Karstenz e al “ragno di Lecco” Lorenzo Lanfranchi. David Lama attende da mesi di scalare in libera il Torre e nemmeno Salvaterra è riuscito a salire sulla “sua” montagna.
Fino ad ora questo è stato un anno che ha davvero lasciato poco spazio ai sogni alpinistici di tutti.
I prossimi nella lista saremo noi?
Patagonia, terra di sogni infranti diceva Cesarino Fava il vero scopritore del Torre. Seppur alpinista non si riferiva però ai soli sogni degli scalatori, bensì ai sogni di una vita migliore per le migliaia di uomini e famiglie che si stabilirono in queste terre desolate e solitarie sognando che le loro Estancia potessero ingrandirsi e prosperare. Per molti però la fortuna non arrivò mai, solo lunghi anni solitari e di lavoro durissimo senza trovare mai pace.
Paragonata alla loro vita la mancata salita di una cima può solo far sorridere una persona con un minimo di obbiettività.
Prendiamo quindi questi giorni di maltempo con filosofia, del resto la pazienza è la prima qualità richiesta ad uno scalatore Patagonico.
L'unico fatto che ci lascia davvero sconcertai è la tragedia capitata pochi giorni fa a Fabio Giacomelli ed Elio Orlandi. Nessun errore di valutazione, tanto coraggio ed esperienza, un impresa quasi riuscita. Alpinisti completi, fortissimi e saggi che però la montagna non ha risparmiato di colpire con una violenza inaudita.
Una guida alpina del Chalten, Lorenzo Viamonte mi ha fatto vedere delle sue foto notturne fatte due giorni prima della morte di di Fabio in una rara finestra di bel tempo. Si vede il profilo del Cerro Torre nella notte, le stelle che brillano nel cielo ed una lucina a due-terzi della parete strapiombante.
La minuscola tendina persa nel buio del Torre che emette un bagliore nell'infinito come un sole lontano.
In questi giorni chiuso nella tenda in mezzo alla bufera leggo queste parole di Esiodo dalle “Opere e Giorni”: “... Zeus padre, una terza stirpe di gente mortale fece, di bronzo, nata da frassini, potente e terribile. Loro di Ares avevan care le opere e la violenza, ne pane mangiavano, ma d'adamante avevan l'intrepido cuore...”.
A Fabio rivolgo questo pensiero.
I giorni diventano presto settimane e siamo sempre chiusi in tenda, immobili sotto il tiro di bufere senza fine. Nella testa il pensiero di un alpinista che non c'è più, le persone che sono a casa ad aspettarmi e i giorni che passano nell'apatia che l'immobilità porta.
Giorni, settimane, mesi, unità di tempo che la montagna non considera neppure ma che per noi sembrano un eternità e che mettono a dura prova anche la motivazione più forte.
A casa, pensare di trascorrere tanto tempo chiusi tra fragili tende di tela senza poter far nulla sembra un pensiero insopportabile. Eppure qui ci adattiamo anche a questo.
In alcuni brevi istanti in cui il vento sembra non voler più spezzare i paletti della tenda proviamo a salire ma sono tentativi senza speranza dettati solo dalla noia e dall'inattività che in alcuni momenti prende lo stomaco per quanto è insopportabile.
Il tempo sembra scollarsi da noi, come la pelle delle nostre mani che cade dopo averle martoriate su questo granito tagliente.
Quello in cui siamo immersi è un mondo di giganti e di pareti minerali che possiamo salire solo con la fantasia o al prezzo di fatiche a volte insensate.
Non capisco come di notte riusciamo ad addormentarci, visto che per tutto il giorno e per più giorni di fila non facciamo altro che stare sdraiati a fissare il telo della tenda che sbatte a cinquanta centimetri dalla faccia. Probabilmente pensare tutto il tempo è più sfibrante che scalare e a volte la stanchezza sembra così grande che pare quasi come se qualcuno ci versasse il sonno direttamente negli occhi.
Scendere a valle in quelle condizioni non è un tradire i nostri sogni ma una necessità per la mente.
In paese sembra di esser di colpo tornati in paradiso. L'erba verde e gli alberi ci danno più calore e conforto che il vedere altri esseri umani.
Anche il sole qui ci scalda in un modo diverso.
Sulle vie d'arrampicata sportiva vicino al villaggio e nella “cioccolateria” ritroviamo alcuni degli alpinisti più forti del mondo e ci fermiamo con loro a scambiarci notizie sui nostri obbiettivi, la meteo e consigli sulle migliori birrerie del Pueblo.
I fratelli Hubert con la loro squadra, Tommy Ponholzer, Rolo Garibotti, Colin Haley e David Lama, Max Odell e noi, tutti riuniti a fare baccano sui tavoli del locale. Sembra quasi un ritorno alla vita dopo giorni e giorni di nulla in mezzo al bianco dei ghiacciai.
I turisti che ormai arrivano a frotte al Chalten, vedendoci così in gruppo ci guardano strano ma non hanno dubbi su quel che siamo qui a fare. Siamo alpinisti e scaliamo montagne dure e bellissime e le nostre magliette lercie, i capelli arruffati e un concentrato di braccia molto più muscolose del normale sono lì a testimoniarlo.
Per noi però, è soprattutto sentire che forse non siamo dei pazzi solitari. C'è dunque qualcun altro che per mesi sacrifica la carriera e il lavoro, che soffre lontano da casa e dagli affetti per venire a vivere quaggiù dei momenti fatti di incertezza, momenti così duri e lontani da tutto che a volte ci sembrano quasi felici.
Nelle forti strette di mano, negli occhi di questi uomini duri vedo la dolcezza e il senso di fratellanza che ci accomuna e che deriva tanto dall'aver visto montagne meravigliose, quanto nel porsi le stesse domande sul perchè del nostro vagabondare per il mondo, sull'amore per per la nostra casa e per le nostre famiglie, per le nostre compagne che ci capiscono ed appoggiano nonostante le critiche di una società sempre più idiota e borghese.
Saliamo ancora e poi ancora , frustati dalle bufere che non lasciano speranza e poi aspettiamo... per ripartire ancora appena il tempo sembra migliorare appena un po'. Non facciamo a tempo ad arrivare al campo avanzato quando vediamo una enorme corazza di neve, come poche volte si è visto negli ultimi anni che viene pressata e incollata alle cime dall'urlo del vento. Basta un raggio di sole o un piccolo rialzo termico per vedere con sgomento crollare interi palazzi di ghiaccio sulle rocce che dobbiamo scalare.
Proviamo a salire comunque ma non troveremo la vetta questa volta, non tracceremo la via nuova che sognavamo lo sappiamo bene. Ma forse è proprio per questo che dobbiamo provare a salire ancora.
E' una cosa bellissima e gratificante partire per un viaggio inseguendo un sogno ed è un immensa gratificazione trovare o realizzare quello che si sperava.
Ma è una cosa grande e che forse ti apre ancor più la mente il non trovare quello che pensavi bensì qualsiasi altra cosa il viaggio ti porti e che non ti saresti mai immaginato ne sognato.
Questo diceva Hermann Hesse in Siddharta e allora questo forse, andiamo a cercare noi, domani in mezzo a quelle nuvole lassù!

1 commento:

  1. Ciao Luca, sono il Noè, amico di amici comuni (che sono anche figli miei ;-D...).
    Non posso non lasciare un pensiero dopo aver visitato alcune volte questo tuo spazio virtuale, che oggi mi ci ha riportato per l'aver riletta l'introduzione di Stenghel al tuo meraviglioso libro che ho ritrovato nella sala d'attesa di uno studio privato.
    Tre cose di te mi piacciono e se questo tuo blog lo prevede, credo ti farà piacere di leggere:
    La prima è la tua giocosa naturalezza d'essere.
    La seconda, il tuo coraggio di piangere.
    La terza, considerare "la cima" non un traguardo, ma "solo un punto di passaggio!". A questo riguardo, devo dire che fino a qualche tempo fa, condividevo la massima di un'altro noto alpinista friulano che scriveva: "...il bello della cima, è la consapevolezza che di li, si può solo scendere...".
    Ciao Luca, anzi SuperCiao e mi raccomando... sii prudente e se torni a far legna, ricordati di portare un paio di guanti di riserva!

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